La metafora del KO
Ho spesso utilizzato la metafora del KO per provare a spiegare cosa significa avere un figlio con autismo. E’ come avere un pugno in faccia che ti manda al tappeto, all’improvviso. Ti ritrovi a terra a massaggiarti la mascella, e ci metti un po’ a capire cos’è successo. Poi ti rialzi, aspetti che il dolore passi, e quello alla mascella prima o poi passa.
Ma come proseguire da quel momento in avanti dipende solo da te.
All’inizio si va alla disperata ricerca di una diagnosi.
Non esiste uno specialista bravo abbastanza: speri che sia lui liberarti da una “condanna a vita”, che smentisca i colleghi che non hanno capito che tuo figlio è un caso diverso, che lui potrà guarire.
Non so se sia meglio conservare a vita l’illusione della guarigione oppure prendere subito coscienza della realtà e riorganizzare l’esistenza su nuovi parametri.
Non credo esista un genitore perfetto, io certo non lo sono, ma in questi anni ho sviluppato una discreta capacità di comprensione dei comportamenti di chi è iscritto al mio stesso “club”. Non abbiamo fatto domanda di iscrizione, ci ha pensato il destino, ma ci accumuna la disperata voglia di reagire.
Marzo 2003: il “luminare” di turno mi dispensa il suo “abbiamo un problema”.
La sua soluzione: utilizzare le risorse disponibili sul territorio.
La mia risposta, tempo due mesi, ha un nome: Weston.
A distanza di quindici anni, continuo a pensare che ci sia voluto un pizzico di follia nel decidere di mettere le ali alla nostra esistenza e trasferirci oltreoceano.
Ma posso anche aggiungere, con certezza, che quell’esperienza ha cambiato radicalmente il mio modo di vivere l’autismo, non più come una strada senza uscita ma come un’opportunità per costruire un futuro migliore.